Una scelta

 

 

Scena uno

La fattoria è la realizzazione di un mio sogno da bambino. Sono vissuto per metà della mia infanzia in montagna. Il passatempo preferito era aggregarmi ai pastorelli della zona e stare fuori tutto il giorno ad accudire le bestie. Ho sempre detto che da grande avrei voluto anche io le mie! A trentacinque anni posso finalmente esaudire quella che sento dentro di me come una spinta di generazioni che mi hanno preceduto. Allevare animali. Compriamo asini, maiali, conigli e galline ed iniziamo in tre la nostra avventura. Fin da subito ho l’occasione di attuare la mia nuova filosofia di vita. Da qualche parte ho letto di Adriana Zarri, teologa arguta ed anticonformista. Ritirata in una sorta di eremitaggio aveva deciso di cibarsi unicamente della carne di animali da lei stessa allevati. Un gesto di responsabilità – asseriva  – nei confronti della bestia a cui avrebbe inferto il colpo mortale per  nutrirsi. Mi sembrava nobile. Eticamente ineccepibile. Mi permetteva, una volta fatto mio questo precetto, di assumere una posizione più rispettosa nei confronti del creato. Ai tempi ero già a conoscenza di alcuni sistemi di allevamento industriale e della disumanizzazione che vi abitava. Inoltre, in questo, mi sentivo parte della storia della famiglia, tornare a quella economia di sussistenza che per tanto tempo aveva occupato i miei antenati e dove mi piaceva trovare una collocazione. Va da sé. Il pensiero era nobile, l’attuazione molto meno. Si trattava innanzitutto di uccidere. Con la pistola da macello gli animali più grandi, con le mani od il coltello quelli più piccoli. L’avevo già visto fare. Ora – non ci sono particolari che vale la pena raccontare. Mi spiace ancora oggi di quella crudeltà motivata da nobili  ideali. L’infantile desiderio di sentirsi uomo vero, capace di infliggere morte come è accaduto per secoli. Ho fatto quello che ho fatto procurandomi dissociazione. Mi impedivo di sentire  e di vedere. Semplicemente mi dicevo che andava fatto. Risvegliavo in me qualcosa di arcaico e spaventoso, lo spegnersi della compassione e l’accendersi della violenza pura, gratuita, mortifera. Mi conoscevo persona mite, a volte incline alla rabbia, ma fondamentalmente pacifico. Mi sono scoperto freddo, lucido e risoluto.

La carne così ottenuta andava poi lavorata, l’animale ridotto in pezzi, i salami appesi. Nulla più rimaneva di quell’accudimento che precedeva la macellazione. Solo ossa da seppellire.

 

 

 

 

Scena due

Febbraio. Partiamo alle otto. L’occasione è il compleanno di uno dei tre, soci della fattoria. Si esce in alta montagna: io con le pelli, loro due con le ciaspole. Passano sotto casa e mi caricano. Ci sono anche i due cani : Orso e Zagor. Partiamo da Riale che saranno le nove-nove e trenta. Non so bene dove si va, il festeggiato ha scelto l’itinerario. Si procede un po’ lenti. Non ci fermiamo che verso le dodici e trenta per un boccone, la giornata è stupenda, ma ora so che non siamo neanche a metà del percorso! Non ho mai fatto questo sentiero e in inverno poi risulta tutto più difficile. La progressione è lenta. Ad uno dei due, il più stanco, si rompe un laccio della ciaspola. L’altro in una sorta di sfida se ne priva anche lui per gareggiare ad armi pari. Io inizio ad innervosirmi. Si fa sempre più tardi, il sole si abbassa, noi andiamo avanti ma troppo lenti. Sono stanco. Comincio a pensare a possibili alternative: tornare indietro? Scendere in Svizzera (siamo proprio sul confine)? Mi dicono che non è il caso di allarmarsi. Che loro hanno già fatto quel percorso e siamo solo un po’ in ritardo. Porca puttana! Dopo un po’ mi arrabbio : sono le sette di sera, sta venendo buio e non si vede ancora la sponda del lago dove dovremmo arrivare. C’è un bivacco, ma è invaso da neve dura, ghiacciata. Non abbiamo più acqua e cibo. Poche forze. Scendiamo un pendio che non so neanche io come riusciamo ad arrivarci in fondo. Uno dei due dice: “Vi chiedo solo questo: portatemi a casa”. Passo da momenti di esaltazione, la meta mi sembra vicina, a momenti di rabbia e sconforto. Il lago si intravede, ma non siamo sicuri sia quello giusto. Me la prendo con loro e gli dico : come cacchio si fa a pensare ad un’uscita di questo genere! Mi controllo perché vorrei ucciderli. Appena il telefono prende avviso la mia compagna che siamo ancora in alta montagna, le dico di non preoccuparsi ma sono io che sto cedendo al panico. Mi sale la voglia di chiamare aiuto.. Provo a parlarne.. ma loro non sono d’accordo. Sostengono di sapere dove ci troviamo, siamo vicini dicono.  La notte è calata, splendida. Non abbiamo torce ma c’è luna e sulla neve brilla a giorno. Ad un tratto ho le allucinazioni. Sento delle voci in lontananza.. rispondo. Che sollievo. Sono evidentemente venuti a cercarci, d’altronde sono ormai le dieci della sera! Sembra di scorgere anche delle luci che ci segnalano, lampeggiando, la direzione da seguire. Avanti allora, ci siamo. Arriviamo faticosamente al lago e.. sgomento. Il posto è quello giusto, ma non c’è la strada per giungere al muro della diga. Non esiste nessuno che è venuto in soccorso. Le luci.. Le luci che abbiamo intravisto sono il riverbero dei lampioni della muraglia nelle acque del lago. Mi lascio andare a terra. Non conosco il luogo. Penso: siamo bloccati, lì c’è l’acqua e, sopra, la parete di roccia. Non si passa.  Chiedo per l’ultima volta di chiamare con il telefono qualcuno che ci possa aiutare. Sono affranto. In seguito mi vergognerò di questo cedimento ma tanto è,  così si manifestano i miei fantasmi.  I due soci non si abbattono e perlustrano il terreno. Trovano la strada, finalmente in piano, che costeggia il lago. Riprendo il comando della pattuglia e di me stesso e quando arrivo alla casa del guardiano sono le undici di sera! Quando lo vedo vorrei abbracciarlo. Gli racconto quello che è successo. E’ stupito, ma non più di tanto.  Mi offre acqua – e visto che si può scegliere – gasata. Arrivano anche gli altri. Ora si ride e si scherza. Ultimo tratto fino alla macchina leggeri come piume. L’abbiamo scampata. E’ vero e questo ci rende euforici come bambini alla fine della scuola. Arrivati al furgone, un lampo! Ci sono anche i cani.. Orso e Zagor, per tutto il tempo con noi. Nessuno se ne ricordava. La mente, in modalità provvisoria, cancella i segnali superflui. E’ troppo impegnata a dominare le voci che si rincorrono per occuparsi anche di loro. Silenti e accorti hanno disceso nella neve i pendii che abbiamo affrontato con paura. Al nostro fianco ma da soli, come siamo in fondo tutti in queste situazioni. Ora mi accorgo – so con certezza – li abbiamo percepiti come figli di un dio minore.

 

 

 

Scena tre

Ai ragazzi mostro un cortometraggio in occasione del giorno della memoria. Parla di Etty Hillesum, una scrittrice olandese, ebrea, morta ad Auschwitz. Ha scritto anche lei, come Anna Frank, un diario del periodo precedente la deportazione. Le sue parole di pace ci giungono intatte e perentorie fino ad oggi. Sorprendono, perché pronunciate in condizioni di ferocia e crudeltà inaudite. Nel filmato due giovani universitari dei giorni nostri si mettono sulle tracce della giovane ed interpellano gente comune, letterati, scienziati, professori universitari sui temi della violenza, della diversità, dell’intolleranza e della barbarie. Il problema è: come accettare che ciò che è accaduto sia accaduto veramente e sia opera dell’uomo. Quando intervistano Michel Wery dell’Istituto di Neuroscienze di Bruxelles lui dice: questa mattina accarezzavo un gattino e per un attimo mi sono reso conto di quanto fosse indifeso, fragile nelle mie mani. E di come io avrei avuto la possibilità di fargli qualunque cosa. La stessa cosa la sperimentiamo con i bambini, con le persone che ci chiedono aiuto. Una sensazione di potere assoluto che ci prende di fronte agli indifesi, agli inermi, a chi consideriamo inferiore.  Questo è l’elemento in grado di scatenare la barbarie in ciascuno di noi. Se io posso pensarla so che in particolari situazioni potrei agirla. Ogni giorno scelgo diversamente, ma ogni giorno questa possibilità può presentarsi in me. Nella mia natura di essere umano –  all’occorrenza violento.

 

La scelta

Molti altri ne hanno parlato prima. Ma l’umanità dimentica dopo poco. Gandhi la chiamava  ahimsa (non violenza) e la praticava. Questo il percorso di esperienze che mi ha portato alla scelta vegetariana.

Vedendo il film Lincoln ho pensato che democratici e repubblicani un giorno si batteranno su fronti opposti in merito al trattare o meno gli animali come cibo di cui nutrirsi. E’ un processo lento, ma inesorabile, di consapevolezza, di presa di coscienza. Quando si vede una macchia non si può più fare finta di non vederla, essa si presenta ai nostri occhi insistentemente. Così è stato per me  riflettere sull’origine del mio essere carnivoro.   Siamo il frutto di migliaia di anni di evoluzione. Lo ricorda anche Robert Thurman (il padre della celebre Uma), sostiene che non siamo altro che il risultato di migliaia di vite precedenti che ci hanno modellato al punto da renderci quello che siamo. Siamo nipoti della guerra con il suo carico di fame e disperazione, e il risultato di una evoluzione che ci ha fatto cacciatori per sopravvivere, onnivori per poter adattarci agli ambienti più diversi ed infine in grado di produrre cibo in abbondanza. Ma anche meno violenti, più ragionevoli. Lo dicono le statistiche. Il contesto è cambiato velocemente e ci impone nuove decisioni, anche drastiche, per consentirci di continuare a vivere sul pianeta. Ed allora la scelta vegetariana diventa una delle possibili per ristabilire equilibrio e salute nel periodo storico che stiamo attraversando.  Ad un livello più profondo però questo stesso rinunciare si rivolge alla nostra parte più oscura, al dominio di quelle pulsioni che nulla hanno a che fare con il nutrirsi ed invece rispondono ad altri istinti primordiali che è necessario riconoscere come propri per non stupirsi od indignarsi quando essi sono rivolti contro lo stesso genere umano. Il sentimento di umanità è una torcia in grado di spegnersi al primo soffio di vento, ma siamo anche noi responsabili del suo accendersi e spegnersi a seconda delle abitudini, della cultura e della convenienza che ne possiamo ricavare. So che se mi trovassi in pericolo di vita perché senza cibo non esiterei a mangiare qualsiasi cosa, compreso questo pezzo di carta tutto intero. Ciononostante questo pensiero è insufficiente a giustificare un comportamento di cui non percepisco più l’utilità, né il beneficio.

Non so se vi sia qualche possibilità di influire con un gesto sull’incessante ripetersi di eventi storici che hanno nell’espressione della violenza il loro compimento. So per certo invece che questa scelta ha cambiato i miei sogni. Ad oggi più sereni. E tanto mi basta.

S.Z.  2013

 

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