E’ inizio ottobre, l’estate indiana. Mai come quest’anno il termine gli si addice. Mauro mi ha chiesto due righe su i giovani in condizioni di disagio e il cavallo. Meglio: io, psicologo, mi occupo di giovani adulti problematici e tossicodipendenti adulti. Da qualche anno, tre, ho iniziato ad andare a cavallo. C’è una qualche relazione tra i due argomenti? Un ponte, un pensiero che possa diventare occasione di riflessione e magari strumento in grado di restituire a questa attività un fine terapeutico? Non so. Ne abbiamo parlato una sera alla Riserva, è stato bello discuterne, confrontarsi. Cosa ne è uscito? Vediamo alla fine. Ora raccolgo un po’ di idee sul mio avvicinarmi a questo mondo e poi ..
Mi piace la montagna. Ho sempre cercato un rapporto con gli animali. Conoscere Alpitrek è stato unire queste due passioni in una sola. Mi piacciono ancora di più le storie. Se non fosse così non avrei fatto questo lavoro. Già, le storie. Da Mauro se ne trovano molte, di vario tipo, fantastiche e reali, vissute e raccontate, sempre ascoltate con piacere. Ma andiamo avanti.
Cosa cercavo?
Il cavallo è stato all’inizio un rapporto difficile. Paura, ignoranza, goffaggine. La sensazione di una forza imbrigliata e contenuta a stento da qualche manovra che avrei dovuto applicare, ma sempre sul punto di sfuggire al mio controllo. Quanto si stringe la sella? Dove va messa la coperta? Quando si deve essere determinati e quando carezzevoli? Inquietudine per le tante cose da imparare, ecco il termine. Ancora oggi non è del tutto scomparsa. Ma non sono uno che molla facilmente. Allora accanto a questa, piano piano la sensazione che si costruisse qualcosa. Un linguaggio nostro, la ripetizione di gesti, un rituale che rassicura. L’avvicinarsi al sacro.
Sacro, parola indoeuropea che significa “separato”. Una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l’uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata “divina”. (U. Galimberti, 2004). In parte era questo il mio modo di stare a cospetto del cavallo. Avvertivo il timore che si prova di fronte a ciò che non si comprende pienamente ma verso il quale, forse proprio per questo, nutrivo profondo rispetto . Non lo sapevo così chiaramente ma ora mi è limpido. Potenza e libertà, secoli di storia a narrarne le gesta e le qualità, finalmente a portata di mano.
L’altra parte era sfida. Curiosità, voglia di dominare quella forza e attingere da essa per averne a disposizione nei giorni più bui. Con il tempo, tanto tempo, e la cura, tanta cura, mi è stato più chiaro che non era solo una questione di potere, ma bensì la distribuzione di energie da parte di entrambi rivolte ad un obiettivo condiviso. Che fosse l’uscita di un’ora come il trekking di più giorni, la sgambata della domenica mattina o la galoppata pancia a terra. Io facevo la mia parte, cercavo di comprendere, imparare il suo linguaggio, e lui il mio. A poco a poco sempre più vicini, sempre più fidati. Come ripetere una preghiera porta più vicini a dio così io ripetevo le mie per avvicinarmi al sacro.
Cosa centra tutto questo con i giovani adulti problematici. Proviamo ad esplorare quel mondo e vediamo se le strade si incrociano.
A queste persone che io vedo quotidianamente, presto o tardi, prima o dopo, nel corso del nostro cammino, salta fuori che è successo qualcosa. Da piccoli piccoli oppure un po’ più grandicelli, ad un certo punto qualche cosa è andato storto. E spesso proprio tanto storto. Per capirci, qualche cosa che noi diamo per scontato non debba accadere quando si è piccoli, nel loro caso è capitato. Un genitore è mancato, a volte entrambi e a volte non necessariamente deceduto. Quindi uno dei traumi maggiori: la perdita dell’amore. Violenza subita, fisica, ma non solo, spesso anche verbale, ripetuta, tale da penetrare il confine del corpo e minarne l’integrità. Perdita del confine. Ed immaginate quanti di questi episodi, piccoli o grandi, possano capitare ad un bambino. O sono capitati a noi, sfortunatamente, ma non in misura tale da generare quello che leggerete in seguito, fortunatamente.
Per renderlo folle, tossico o furente ciò che è capitato deve aver superato una certa soglia. Quella linea che in tutti noi è presente e che non superandola ci consente di mantenere il comando della nave. Ma che tutti noi, sottoposti a particolari pressioni e in accordo con la nostra natura più o meno fragile, possiamo disperatamente valicare. In tutti questi casi, con intensità diverse, ciò è avvenuto. Chi ci sta davanti ha subito una o più ingiustizie. A volte così grandi che la nostra mente ad immaginarsi come potesse essere vacilla e rifiuta lo sforzo. In altre, le ferite inferte sono più lievi, sottili, ma frequenti. Parole e gesti che ripetono “non sei come ti volevo, non mi piaci così”.
La sensazione è che alcune Leggi Naturali siano state violate. Il loro Ordine sovvertito.
Ora, come possiamo noi essere d’aiuto. In che modo la strada del cavallo e quella della sofferenza si possono incontrare? La falla di primo acchito appare così grande che ogni toppa mostra la sua inefficacia ancora prima di applicarla. Correale per spiegarsi dice “Si è trattato in effetti della rottura di ciò che è considerato sacro: l’amore per i bambini, il non usare la violenza, aiutarli a crescere ”. Tutto questo genera rabbia. Una rabbia che si annida nel profondo, un buco nero mai sazio che tutto potrebbe inghiottire, la vita stessa. Accanto a questa, il dolore, ma un dolore inenarrabile (non raccontabile) perché riguarda le fondamenta stesse dell’identità, quelle per capirci che si costruiscono prima della parola e riguardano più il clima in cui si è cresciuti, i gesti, la cura. Infine, come conseguenza, la sfiducia. Il non credere più nell’uomo colpevole di tali nefandezze.
E’ qui che ciò che si fa in Alpitrek acquista un significato anche terapeutico.
Le parole in questi casi, intese come modalità di avvicinamento, di spiegazione, di comprensione, valgono poco e niente. “Cosa vuoi saperne di ciò che mi è capitato!” lo leggo spesso nei loro occhi. L’ascolto vale molto di più. Riconoscere la gravità di ciò che è accaduto. Sia verbalmente che con i gesti, quelli che riconducono al sacro, i rituali. La ripetizione, la costanza, la presenza. Nel contatto con il cavallo questi accorgimenti sono la base del rapporto.
L’animale. L’anima. La parte più profonda, ciò che in noi sopravvive come indistinto, non differenziato, non ancora assoggettato alla ragione, ma istinto, pulsione, radice dell’esistenza. Capace di ricondurci ad una purezza che si spera possa rendere sopportabile ciò che di brutto c’è al mondo.
Mi torna in mente il grande King in Stand by me. Quattro ragazzini, con storie famigliari difficili alle spalle, alla ricerca del corpo di uno come loro, travolto dal treno. Nel bel mezzo della loro avventura, la voce narrante, al mattino, incontra una daina. Gli altri ancora dormono. Sui binari, vicino al bosco, l’incontro:
“I suoi occhi non erano marroni, ma di un nero profondo, polveroso – come il velluto che si vede sul fondo delle vetrine dei gioiellieri. Le piccole orecchie erano di una pelle vellutata. Mi guardava con tranquillità…”
E poi : “Stavo proprio per dire della daina; ma poi finii per non farne niente. E’ una cosa che tenni per me. Finora, fino ad oggi, non ne avevo mai parlato o scritto. E devo dirvi che scritto sembra una cosa di poco conto, quasi insignificante. Ma per me fu la cosa più bella della spedizione, la parte più pulita, e fu un momento a cui mi son trovato a ritornare, quasi inevitabilmente, ogni volta che mi sono trovato in difficoltà nella mia vita.”
La più pulita. Come i cavalli capite.
Alla fine ci mette una di quelle frasi che ti inchioda alla sedia per quanto è vera: “Le cose più importanti sono le più difficili da dire, perché le parole le rimpiccioliscono. E’ difficile fare in modo che un estraneo provi interesse per le cose belle delle tua vita.”
Per giungere a ricomporre queste fratture allora tre cose già presenti nello stile AK : la comprensione, intesa come empatia. Riconoscere che ciò che è accaduto è stato grave, profondamente ingiusto. In questo i cavalli sono avvantaggiati, non giudicano se non in base a come ci si comporta con loro. Per loro non c’è passato, storia, solo presente.
I gesti, i rituali. Da svolgersi con disciplina e rispetto delle regole. Capaci di ricondurre al sacro, ricostruire quel contatto. E qui il cavallo la gioca da padrone, lui è sicuramente più vicino di noi a ciò che non si può spiegare a parole.
E poi, finalmente la parola che cura: la storia. Milton Erikson. Psicologo e medico americano esperto in ipnosi e storie. Sosteneva che i racconti generano mutamenti intrapsichici. Profondi cambiamenti nell’inconscio. Senza alcun apparente nesso con la sofferenza delle persone, le storie curano. Lui lo sapeva e le utilizzava nella sua pratica clinica. Grazie a queste generava nei pazienti uno stato di “trance” e sosteneva che proprio in quello stato la persona era più disponibile ad entrare in contatto con il proprio “vero sé”. Sentite come iniziava a volte..
“E voglio che tu scelga un momento nel passato in cui eri una bambina piccola piccola. E la mia voce ti accompagnerà. E la mia voce si muterà in quelle dei tuoi genitori, dei tuoi vicini, dei tuoi amici, dei tuoi compagni di scuola e di giochi, dei tuoi maestri. E voglio che ti ritrovi seduta in classe, bambina piccolina che si sente felice di qualcosa, qualcosa avvenuto tanto tempo fa, qualcosa tanto tempo fa dimenticato.” (Milton H. Erickson)
S.Z.