“Il cervello è specializzato in attività specifiche , come quella di predire il futuro: è simile a un architetto che ha già in mente un’immagine definitiva del suo progetto o a un romanziere che sa già come finirà la sua storia prima di cominciare a scriverla. Ma proprio la facoltà di anticipare idee significa per l’uomo avere paura del futuro o, per usare un’espressione più popolare, ciò comporta che l’uomo diventi ansioso”.
E’ il ragionamento del neuro scienziato di fama mondiale Joseph LeDoux, docente del Center for Neural Science della New York University e direttore dell’”Emotional Brain Institute. Un ragionamento che lo porta a fornire una nuova definizione di ansia, vale a dire una conseguenza dell’essere creativi nelle previsioni ! E’ questo il cuore dell’ultimo saggio di LeDoux, “Ansia, come il cervello ci aiuta a capirla” (Raffaello Cortina). Un saggio su un tema perennemente attuale: “L’ansia fa parte della vita, c’è sempre qualche cosa di cui preoccuparsi, avere timore, agitarsi o stressarsi” sostiene LeDoux. Difficile dargli torto. Anche la biologia evoluzionistica concorda: un fisiologico stato di tensione ci fa trovare preparati di fronte a improvvisi cambiamenti e ai pericoli. Tuttavia, se l’allerta è un senso innato, la maggior parte delle fobie derivano dall’esperienza, dalla cultura e dall’ambiente. In una parola dai vissuti che si trasformano in trauma.
Le uniche fobie innate sono quella del buio (pensiamo ad un cavernicolo sempre in allerta per schivare i predatori) e quella del rumore (pensiamo al nostro cavernicolo sorpreso da un temporale). Fin qui siamo ancora alla teoria. Come fare allora per scrollarci di dosso l’ansia, evitare attacchi di panico e non struggerci tra piccoli e grandi pensieri paranoici? LeDoux è chiaro. Primo: la strada del farmaco non è risolutiva. Tampona il sintomo, ma non risolve. Secondo: si deve sgombrare il campo dalle “faide” tra cognitivisti e psicodinamici, tra chi affronta le paure da un punto di vista razionale e chi lavora sulle dinamiche inconsce.
“Le informazioni raggiungono l’amigdala, il centro emotigeno per essere processate dalla corteccia pre-frontale, che rappresenta un sistema di inibizione e regolazione delle emozioni. La corteccia, infatti, integra le informazioni emotive con quelle sensoriali e culturali, dando una forma riconoscibile all’esperienza». È chiaro, quindi, che «l’interpretazione emotiva precede quella cognitivo-razionale». La minaccia spaventa prima il corpo e poi la mente. Non è perciò sufficiente lavorare solo sull’aspetto razionale dell’«informazione» che provoca ansia, ma nemmeno solo sugli aspetti inconsci. Serve una psicoterapia che dialoghi con entrambi i filtri emotivi: il primo di natura istintiva (l’amigdala) e l’altro ragionante (la corteccia). Se negli Usa di LeDoux la psicoterapia ha molto seguito, in Europa c’è maggiore diffidenza. Le neuroscienze, però, sono abbastanza mature per sbilanciarsi sulla questione: la psicoterapia è solo teoria o ha fondamenta scientifiche? «Con il brain-imaging – continua LeDoux – vediamo che è in grado, dopo molto lavoro, di cambiare l’assetto delle connessioni cerebrali e dunque di rimodellare il cervello: è un processo di apprendimento, in cui il paziente non “debella” fobie o nevrosi, ma impara a conoscerle e a governarle». Una scoperta importante nell’epoca che LeDoux definisce «l’età dell’ansia». Questa è una condizione fisiologica, normale e adattiva. Tutti, individualmente, ne siamo esposti. Ma cosa succede con l’ansia sociale? Crisi economica, deterioramento dell’ambiente e terrorismo: il rischio è un circolo vizioso. Al momento non ci sono rimedi certi. Che avesse ragione Sigmund Freud, quando ne «Il disagio della civiltà» profetizzava la tensione crescente tra la libertà individuale e la sua inibizione a favore dei vantaggi collettivi?
Marco Pivato